Ci sono situazioni che possono essere ritenute al limite e che rischiano di trarre in inganno i consumatori. Gli aspetti sono tanti in questo senso, con il rischio che sia proprio chi porta a casa questo o quell’articolo alimentare a compiere una spiacevole scoperta.
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Questo può succedere ad esempio con le birre, le cui spiegazioni riportate nell’etichetta di alcune di esse – e talvolta anche le nomenclature – possono davvero trarre in inganno gli acquirenti.
Ne ha parlato Il Fatto Alimentare. Questo è in effetti un argomento delicato, e per evitare complicazioni si consiglia a chiunque di fare ancora più attenzione. Bisogna consultare con grande minuzia e dovizia di particolari tutto quanto c’è scritto su un alimento od una bevanda che vogliamo portare a casa.
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Per esempio, la birra analcolica in realtà non lo è mai del tutto. Ci sono tracce di residui alcolici che arrivano anche ad una percentuale dello 0,5%. Il tutto nonostante poi certe volte ci siano indicazioni in merito ad uno 0,3%.
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E viene specificato come il prodotto sia analcolico, in etichetta. Con la proprietà riportata a caratteri grandi. Invece la presenza di alcool è riportata molto in piccolo. Cosa che non può essere notata a prima vista o dopo una occhiata veloce.
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Questo potrebbe nuocere ad alcuni soggetti, come ad esempio donne in dolce attesa o persone affette da alcune patologie. O anche ad ex alcolisti che stanno lottando per smettere. Eppure per la legge è tutto regolare. La normativa relativa, come riporta il fatto alimentare, afferma quanto segue:
Art. 2 (così sostituito dall’art. 1 del D.P.R. 30.06.1998 n° 272) • La denominazione di “birra analcolica” è riservata al prodotto con grado Plato non inferiore a 3 e non superiore a 8 e con titolo alcolometrico volumico non superiore a 1,2%.
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